Le storie di Matilde: il tempo di Saffo

Su via, tartaruga mia bella,

acquista per me la favella

(Saffo; Hermog. Perì ideon 2, 4)

Matilde guardava le bambine vestirsi e mettersi a letto. Nel pomeriggio si erano celebrati i funerali di due bambine dell’orfanotrofio, morte di polmonite a distanza di pochi minuti l’una dall’altra. Avevano sofferto insieme i dolori dell’atroce malattia, tenendosi per mano fin nell’ora finale che, serene, le ricongiunse al Padre Eterno. Le ragazze, provate dalla terribile esperienza, erano tutte tristi e mogie e nessuna riusciva a prendere sonno. Ci vollero due rosari per farle addormentare. Soltanto sua sorella Anna avrebbe continuato ad oltranza con le preghiere, fino al mattino successivo: era totalmente sconvolta. Matilde le si avvicinò.

“Non hai sonno?” le disse.

Anna guardò negli occhi la sorella: “Veramente no.”

“Dai allora – fece Matilde – ti racconterò una storia.” E cominciò a raccontare questa storia.

Da molto tempo ormai Carlotta ed Emilia tenevano una fitta corrispondenza. L’una di diciott’anni, l’altra di diciassette, si erano conosciute qualche anno prima nella biblioteca del liceo: entrambe volevano accaparrarsi una vecchia traduzione d’antiche poesie greche. Si scrivevano una volta a settimana e il servizio postale non le aveva mai tradite. Correva l’anno 1963 e l’Italia del boom economico andava risollevandosi dalle tragedie della Guerra. E per loro due, le tragedie dei grandi autori d’Atene non erano che inutili vaneggiamenti: amavano, invece, i poeti lirici, quelle spiagge al limitare delle terre persiane e gli altalenanti sentimenti che tanto appartenevano a quei greci. Il profumo dell’Egeo e gli ondeggianti giunchi di Lesbo facevano vibrare i loro cuori.

Frequentavano lo stesso liceo e abitavano nella stessa grande Roma; andavano a Messa nella stessa chiesa e d’estate prendevano il sole sulla stessa spiaggia. Condividevano tutto ciò che di più puro ci fosse stato nei loro animi e, fulminee, lo portavano sulla carta delle loro lettere profumate. Nessuno sapeva del loro amore e nessuno sospettava nulla: erano diventate brave a snobbarsi reciprocamente per i corridoi della scuola e a non salutarsi i sabati sera con gli amici. Le lettere erano i loro discorsi, tutti i loro sentimenti. Era difficile nasconderlo, ma in un certo modo ci riuscivano; ci dovevano riuscire: la città che le accoglieva, le famiglie che le allevavano, gli amici che le circondavano non avrebbero mai capito il loro amore. L’avrebbero interpretato come una loro follia malsana, una qualche depravazione riemersa da chissà dove. E per evitare che venisse frainteso, lo tacevano, lo nascondevano abilmente.

“Non mi piace più che dobbiamo nasconderci dal mondo.” fece Emilia.

“Non possiamo. Non dobbiamo. Chissà che scandalo ne verrebbe fuori se si sapesse. Come verremmo malmenate dall’opinione pubblica! Non voglio nemmeno immaginare cosa si dirà di noi nelle aule del Liceo… nelle nostre stesse famiglie… estranee in casa nostra… figlie malfatte.”

Emilia piangeva quando Carlotta le ricordava queste cose. Per lei era difficilissimo concepire come il suo mondo fosse diverso da quello di Saffo, della poetessa che amava le proprie allieve. Per questo si disperava: si sentiva come una bolla di sapone che, sfuggita dal lavatoio d’una lavandaia, volteggiava sopra un campo di spine. E così riprese a parlare l’ingenua Emilia:

“Ma in fondo anche Saffo aveva le natiche…”

Carlotta rise timidamente.

Proprio lei le aveva scritto questa frase in una delle tante lettere. Emilia non la capì quando la lesse e se la fece spiegare un giorno a scuola, contravvenendo alla regola di non doversi incontrare. Carlotta aveva voluto dire che Saffo era identica a loro, in tutto e per tutto, ma mentre Saffo era elevata agli altari della poesia, loro due sarebbero state allontanate dalla società, se si fosse saputo che si amavano. E la consolò dicendole che anche la loro poetessa ebbe ciò di cui vergognarsi e che solo il tempo la nobilitò.

“E quando sarà questo tempo?” le chiese Emilia.

“Ci sarà un tempo in cui anche noi verremo capite… ma non è questo… forse non sarà nemmeno il prossimo…”

Dei mesi passarono e la sorte mutò.

Le lettere si erano accumulate, sia in casa di Carlotta che di Emilia. Ma mentre l’una era sempre riuscita a nasconderle ottimamente, in modo tale che non venissero mai scoperte, l’altra non ci riuscì così bene. Carlotta nascondeva le lettere in mezzo ai libri o ai quaderni, magari anche dentro qualche volume della sua biblioteca; Emilia, invece, sotto il materasso. Venne il momento che la madre di Emilia andò a rivoltare il materasso in camera della figlia: arrivando la nuova stagione questa operazione venne compiuta da rito. Il fatto è che il rito non prevedeva che la madre trovasse le lettere in questione. Donna ignorantella e senza studi, non seppe leggere il contenuto dei testi, che perciò consegnò al marito.

Il padre di Emilia era un tipo particolarmente arcigno, quasi senza pietà nei confronti dei figli e della moglie (non a caso Emilia lo chiamava “l’uomo della pièta”). Leggendo quegli scritti, non fece alcun movimento, nemmeno un cenno di disappunto. Semplicemente prese tutti i testi e li portò con sé, consegnandoli al padre di Carlotta. In tutto questo le ragazze erano a scuola.

Al ritorno in casa, entrambe le ragazze subirono la stessa punizione: in un angolo delle rispettive cucine vennero pestate fin quando le mani dei padri non si macchiarono di sangue e lacrime. Entrambe ritornarono in classe dopo una settimana, ormai considerate degli scarti dalle loro famiglie. Carlotta restò nell’aula il tempo che servì al padre per ritirarla da scuola: Emilia ne morì. Dopo qualche giorno Emilia fu ricoverata e uscì dall’ospedale solo dopo due settimane di severi monitoraggi: le percosse ricevute erano state troppe.

La notizia del loro amore cominciò a circolare per il liceo e caddero nell’infamia generale. Allontanate da tutti, forse persino dai cani, le ragazze finirono col non rivedersi più. Pur allontanandole il mondo, rinnegandole le famiglie, avviate a mestieri miserabili, Carlotta ed Emilia non smisero tuttavia di pensarsi. “Perché le Moire filano ciò per me? Meglio abbandonare la terra che mi scaccia…” questo si poté leggere al margine di un libro d’Emilia. Ma le Moire tessevano per loro due un diverso destino.

Dopo tre mesi esatti, Carlotta ed Emilia si rincontrarono per strada, per puro caso: non servì loro nemmeno un fiato per capirsi e decidere. Preso al volo un autobus, si diressero verso una località di mare. Arrivatevi, raggiunsero un alto picco che si stagliava superbo sopra le onde del nero Tirreno. Su quell’altura si sentirono finalmente libere d’essere ciò che erano veramente. Si sedettero all’ombra di uno stanco pino mediterraneo, sopra delle rocce. E su una di quelle incisero queste lettere. Una poesia che avevano scritto qualche tempo prima, come suggello del loro amore:

Ὡς ἥλιος εἶ καλή

Σαπφοῦς τε τἆωτα νώ

Sei bella come il Sole,

E noi due l’orgoglio di Saffo.

Carlotta ed Emilia si scrollarono di dorso la polvere che dalla roccia era stata grattata via.

Le due ragazze, di fronte all’ultimo crepuscolo, esclamarono: “Addio, Sole! Un altro tempo verrà, in cui chi è come noi non soffrirà le odierne, sanguinose pene…”. Nell’attimo estremo Callimaco le ispirò.

I corpi melliflui, simili ormai al vento che li colpiva, si tennero per mano. Le ragazze abbandonarono l’alta rupe, senza nemmeno sospirare un accenno di pianto, senza versare neanche una lacrima. In lontananza un pescatore le scambiò per stanchi uccelli, che, lasciata la forza sul nido tra le rocce, si abbandonavano alle correnti dell’aria e ai suoi magnifici volteggi. Eolo tenne le loro schiene, mentre le adagiava sul vuoto. Lentamente il baluginio delle stelle tra le fronde degli alberi spariva dalla vista; il gorgoglio delle onde schiumose sfuggiva alle orecchie; il profumo delle rose e dei lillà si dileguava nel lungo tragitto. Eolo discese in mare: a Sardi remota non soggiornò più nessuno.

Quei corpi non entrarono nella chiesa del quartiere: per il peccato della vita e per quello della morte, non passarono davanti a tutte le altre. A raccontare questa storia non ci fu nessuno: l’infamia che certe scabrosità suscitano non è degna nemmeno d’essere raccontata per la sua stessa oscenità. A resuscitarla dal pallido lenzuolo, che la Storia tesse per le vicende sconosciute, fu proprio quella frase, incisa indelebilmente sulla roccia d’una scogliera. E noi, macabri spettatori delle verità altrui, tessiamo i nostri personali veli funebri: nelle nostre azioni si intravede l’esito delle vite degli altri.

 

Anna guardò Matilde: “Che significa questa storia?”

“Significa tante cose: l’importante è che non passi inascoltata. Una rondine non fa certo primavera, ma è pur vero ch’è da una fiammella che si innesca l’incendio che rade al suolo le città.”