“L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ‘l pomo de la spada appoggia il peso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto”
T. Tasso, Gerusalemme Liberata, XII
<< Oh bella Clorinda, cosa ho fatto? Come non ho potuto accorgermene in tempo?
Ero accecato dal combattimento, dal voler vincere: dovevo uccidere il nemico, a qualunque costo.
Ma che avevo in mente?
Stupido, immensamente stupido io, ad esser stato capace di rassettare i miei pensieri soltanto
quando ormai non c’era più niente da fare. Avrei potuto posare prima la mia spada, avrei potuto
non difendere i miei valori e non uccidere il nemico, e solo adesso mi trovo a non farlo più: al
momento sbagliato. La mia contentezza per aver rimesso insieme il mio animo è ogni giorno in
guerra con la rabbia per non averlo fatto prima, in tempo per non ferirti.
E adesso, Clorinda, ho il cuore pieno di te e le mani sporche del tuo sangue. Mi avessero
condannato a dilaniarmi le ginocchia su un prato di chiodi per l’eternità, mai questa bocca
avrebbe emesso un lamento. Dovesse essere infinito il pianto che dai miei occhi sgorgherà per il
rimorso, giusta pena lo considererei; e se sbagliare è umano e se s’impara sbagliando, mai come
ora desiderai d’essermi dimostrato umano con un altro sbaglio, d’aver imparato una lezione
tramite un diverso mio errare, che so per certo mai avrebbe potuto esser peggiore di questo.
Ho avuto tra le braccia la persona che amavo, la persona più bella che avessi mai incontrato fino
ad allora, e l’unica cosa che fui capace di fare fu ucciderla. Il tuo profumo mi inebriò le narici
un attimo prima che la visione del tuo sangue mi inibì i sensi, ed ora quel profumo mi perseguita:
quando col pensiero riesco a fuggire da tutto ciò che mi ricorda te, il tuo profumo, violento,
arriva da qualsiasi angolo di questa terra e mi perfora il cranio, mi entra nelle vene, mi
appesantisce i polmoni, e nel giro di pochi istanti sparisce con la stessa veemenza con cui ogni
volta mi distrugge.
Avrei potuto avere la possibilità di sentire per sempre il tuo profumo, di avere affianco a me per
la vita uno splendido cesto di rose ogni giorno più vive, ma la mia Follia fu contraria: dovevo
ucciderti, così decretò ella. D’altronde, il mio meschino animo era disgregato in troppi
disordinati pezzi perché i semplici e razionali pezzi del tuo cuore potessero completarlo.
Ringrazio questo mondo nefasto per aver fatto incontrare in questa vita i nostri cammini, ma mi
maledico per essere stato artefice del violento cambio di rotta dei miei passi; e adesso che i miei
passi si sono raddrizzati, i tuoi sono troppo lontani, tanto che non li vedo più. Quanto immane è
la felicità nel pensarti libera e lontana dal tuo assassino, tanto lo è lo sconforto nel sapere di
dover portarmi in eterno, attaccata al polso, la mano che ti uccise. Sebbene abbia sradicato me
stesso, abbia condannato il folle che compì l’immondo eccidio e abbia espulso con fatica la follia
dalla mia esistenza, quella mano è sempre lì. Quella ferita è sempre sul tuo torace. Ho capito di
amarti solo dopo averti uccisa e da quel giorno ogni battito del mio cuore scandisce gli
inesorabili secondi di un tempo che mai potrò trascorrere con te, un tempo che non fa altro che
allontanarmi da quello che eravamo, da quello che avremmo potuto essere.
Mai fui dilaniato da così tanto dolore, mai ne provocai così tanto a qualcuno. Io, carnefice di
indicibili atti, adesso sono vittima di me stesso, della mia confusione, della mia violenza, del mio
misero animo. E questo è sciocca pena in confronto al dolore subito da te a causa delle mie mani.
Io, carnefice altrui, vittima di me stesso: l’uomo più meschino del mondo. >>
Mio caro Tancredi, rialzati. Non puoi lasciare che il senso di colpa ti logori per sempre.
È grande il tuo egoismo nel pensare che su di te sia caduto un nefasto macigno: siamo troppi su
questa terra, così piccoli ed infinitamente insignificanti perché l’universo si curi delle fortune e
delle sfortune di ognuno di noi.
Hai solamente subito le conseguenze di un’azione che hai commesso per ignoranza, di te stesso e
della situazione precipitatati addosso. Non sei cattivo, non sei un pozzo colmo di odio: sei un
banalissimo ignorante, come tutti; e l’ignoranza non viene sostituita da conoscenza se non tramite
l’esperienza, bella o brutta che sia. La vita è un continuo divenire, e noi non siamo che succubi di
essa. Il nostro buon Tasso fu l’ennesimo a definire se stesso un pellegrino errante in balia degli
scogli e delle onde del mare e io, tu e tutti gli altri non siamo che suoi compagni di viaggio. Non
dilaniare te stesso per esser stato incosciente, giustamente inesperto dinanzi a qualcosa che mai
avevi avuto tra le mani. Hai ragione a dire d’aver riassemblato il tuo animo troppo tardi, ma credo
mai vi fu testimonianza d’umanità maggiore di questa.
L’umano è così insensatamente complesso e saccente da pretendere ed emulare la migliore
“prestazione umana” ogni giorno, intonacandosi alla perfezione all’esterno, senza accorgersi di
esser sgretolato nell’animo, di non avere neanche una colonna salda a sostenere il peso della propria
coscienza. Perché? Non te lo so dire caro mio, siamo esseri strani, lo siamo adesso come ai tuoi
tempi e come sempre fummo. So solo dirti che è tremendamente ingiusto che le persone siano
incapaci di capirsi ed inconsapevolmente tirino pietre contro muri già crepati, ed allo stesso modo
che persone che amano, disposte a farsi amare, che hanno costruito con fatica larghi pilastri a
sostegno della propria anima, vengano ferite da chi non è ancora stato capace di costruirli e che lo
farà esclusivamente secondo i propri tempi. È tanto ingiusto quanto estremamente naturale: la
sofferenza è parte di noi.
Hai fatto del male all’amore della tua vita, l’hai persa, ma non potrai passare la vita a sperare di
poter tornare indietro: tornassi indietro, faresti lo stesso identico sbaglio. Era necessario che tu
perdessi Clorinda per guadagnare te stesso. Le hai chiesto scusa un attimo prima che si spegnesse
tra le tue braccia, non l’hai accompagnata alla morte da codardo.
Tancredi, hai commesso un enorme sbaglio ed hai il dovere di risorgere da questo, non di portartelo
appeso al collo come manifesto della tua passata ignoranza. Suvvia, i peccati saranno pur stati
inventati per essere commessi, o no?
Permetti a te stesso di diventare la persona nelle cui braccia Clorinda avrebbe meritato di capitare,
rassegnandoti al triste ma necessario fatto che ella non vi capiterà più.
Fatti forza.
Anna Lobue, classe 4AC