ad Alessandra M. M.
“ché mille amanti son meglio di uno,
se quest’uno, però, non vale per mille…”
Matilde restava immobile di fronte alla calza da rammendare: fuori dalla finestra, la notte era troppo bella per poter essere sprecata in quel modo. Nella camerata femminile dell’orfanotrofio “Santa Genoveffa” la calma era surreale e solo il fuoco crepitante fendeva l’aria coi suoi scoppiettii. Sapeva bene, però, che una simile tranquillità viene soltanto prima o dopo una tragedia: il tempo correva nei lontani rintocchi delle campane. Sua sorella Anna dormiva, ignara di queste preoccupazioni. Nei veli setosi del suo sonno, però, parve percepire il mutamento d’animo di Matilde: si svegliò e rivolgendole lo sguardo la chiamò a sé: “Perché sei così mogia?” disse.
“Non lo sono, affatto – rispose Matilde – Su, torna a dormire.”
“Non credo di poterci più riuscire… me la racconti una storia?”
Matilde le sorrise e, sedutasi accanto al cuscino, cominciò a raccontare questa storia.
Antonio, detto Nino dagli amici e dalla famiglia, di diciassette anni, vagava con la comitiva di studenti all’interno dei Musei Vaticani. Si trovava a Roma grazie ad una borsa di studio vinta durante l’anno scolastico: consisteva in due settimane di vacanza-studio presso una prestigiosa università romana, insieme a ragazzi provenienti da tutta Italia. I giovani, benché spesso poco intraprendenti, vengono sempre eccitati dalle situazioni di stress, che per essere superate necessitano di un cambiamento di sé: questa, per Nino, era l’occasione propizia.
Nel lungo corridoio del museo ascoltava le parole d’una guida scanzonata dall’età e dalle meches per capelli: per la noia, l’aria aveva la viscosità del burro. Le due settimane di vacanza-studio stavano per finire e Nino ripercorreva con la mente quanto aveva vissuto. Credeva che molti bei ricordi gli sarebbero rimasti indelebilmente legati: le bevute, le canzoni e le serate passate a parlare di inutili questioni sociali. Formidabili poi erano state le conoscenze e le amicizie: tra tutte il suo compagno di stanza Jacques. Era lì, più avanti, che ascoltava le parole della guida turistica.
Nel frattempo la comitiva aveva svoltato l’angolo ed era giunta nella “Sala Rotonda”. A Nino risultava completamente indifferente, per noiosità uguale a tutte le altre. Tuttavia la sua attenzione si fermò su di un busto, collocato all’altezza dei suoi occhi: rappresentava un giovane ragazzo, aggraziato nei lineamenti e nella posa. Ma in quel viso, seppur bello e affascinante, non riconosceva nessun personaggio storico a lui noto: incuriosito, torceva la testa nel vano tentativo di ricordare ciò che non sapeva. Jacques, che aveva rivolto a Nino lo sguardo, vedendolo confuso, gli si avvicinò e all’orecchio gli disse:
“Si tratta di Antinoo, l’amante dell’imperatore Adriano. Il più bel ragazzo mai esistito dagli albori dell’umanità. La morte lo rese un dio, l’arte lo rese eterno: paradigma di bellezza sin dal Cinquecento, è carne fatta marmo, peccato fatto sacramento. Un crogiuolo di tentazioni, benedizione alla profanazione. Un crogiuolo in cui il giusto e lo sbagliato si fondono e non si riconoscono più: virtù messa al bando, vizio idolatrato. Basta guardare nei suoi occhi per poter capire che ci appartiene, che è e vive in noi, contro e in nostro favore.” Detto questo, si allontanò, facendosi largo tra i turisti.
Nino era rimasto lì, incosciente, di fronte al giovane viso di Antinoo. Non gli erano ancora chiare le ultime parole di Jacques, né capiva perché mai gliele avesse dette. Guardava la statua, e leggeva nel suo sguardo austero una partecipazione nuova. Fu allora che cominciarono a rimbalzargli in testa certe strane idee, vanità sepolte e lasciate inascoltate. Il suo respiro si andava allietando; avvertiva nei suoi polmoni una palpitazione diversa; il suo corpo, senza apparente motivo, si lasciava andare ad un’involontaria rivolta. Perdeva il controllo di sé, e la mente partoriva i dubbi d’una vita intera, forse passata, forse ventura.
Perché di fronte a quel busto sentiva l’incontenibile voglia di sfiorarlo, di lambire il contorno delle candide labbra, di toccare coi polpastrelli la docile curva di quelle spalle di marmo? Non avrebbe dovuto provare questo, perché non è questo che ci si aspetta vedendo una statua: i marmi si osservano, non si toccano. Incredibile che uno scultore anonimo di due millenni prima fosse riuscito a dare al marmo la capacità di cogliere e distribuire simili effluvi erotici. Pensò che qualche filosofo greco avesse già parlato di effluvi in questo modo, ma non ricordava chi e in che occasione. Erotico… l’aggettivo meno probabile per una statua. Forse non andava qualcosa in lui? La domanda presagiva una risposta abbastanza verosimile: il dubbio lo assalì. Come goccia che stilla nella notte, che squassa le orecchie nella sua piccolezza, tale sembrava il sospetto che gli era balenato in testa: il dubbio gli si insinuò nella pelle, come veleno appena iniettato.
“Chissà come sarebbe potuto essere il resto della statua… la nudità completa d’un ragazzo così bello.” pensò. Si imbarazzò con sé stesso per il pensiero appena fatto, eppure, reprimendo l’idea, non riusciva a saziare il dubbio: l’idea correva e lui la inseguiva. La nudità che si era fatta in mente era solo fittizia: non aveva mai visto un uomo nudo, se non nel biancore eroico di qualche scultura. Ma erano diversissimi da lui e credeva che lo fossero da tutti. Non riconosceva in un nudo apollineo le sue forme, né quelle dei suoi amici, né quelle di Jacques. E non capiva perché gli tornasse alla mente proprio Jacques, che non c’entrava niente. Lo conosceva da due sole settimane, non abbastanza tempo per affezionarglisi. Eppure, nel pieno vortice di questi pensieri, l’immagine del compagno gli si presentava, violenta nella sua mollezza.
Jacques era francese per parte di padre, ma era cresciuto in Italia, e della sua Linguadoca aveva il lento ricordo d’una madeleine proustiana. Parlava cinque lingue e conosceva decine di poesie, da Pascoli a Gautier, da Wilde a Foscolo. Della religione negava le pretese, dei politici l’esistenza. Da corteggiatore incallito, beveva Martini per sembrare più femminile; da amante fallito, invece, parlava dell’ineleganza e della grossolanità delle donne. Curava il corpo con la stessa attenzione con cui distruggeva il fegato tra assenzio e droghe leggere.
Nelle notti passate insieme a parlare e a scherzare sui fatti del giorno, Jacques di tanto in tanto si fermava a guardarlo e Nino, sentendosi osservato, ricambiava lo sguardo, arrossendo. Un fuoco gli si accendeva nel petto e si doleva nel non poter comprendere il perché d’un simile calore, che al compagno lo teneva stretto. E nel frattempo Jacques gli diceva cose strane che Nino non capiva; non perché non ne capisse il senso, ma perché non afferrava gli obiettivi di quei discorsi, che emanavano l’odore pungente dell’arancio amaro, dei piccoli pollini di elicrìso. Discorsi talmente belli da non poter capire quando si presentavano, ma solo quando amaramente finivano. Stupidaggini certamente, ma che così parlavano:
“Solo la mano d’un uomo è in grado di scoprire i punti in cui il corpo d’un altro uomo salta di piacere. A questo mondo sopravvive soltanto un prolungato e continuato desiderio, morfina d’un corpo malato di vita. La vita è una malattia e non esistono cure: come cure palliative, vili prosecutrici dei nostri rantoli, valgono soltanto i romanzi, gli èremi e le nostre parole. Desiderio che diviene piacere, mentale e fisico.”
E ne faceva altri ancora più strambi, quasi senza senso:
“Bada bene, caro Nino, a non confondere l’amore con il piacere: alle volte vanno insieme, ma più sovente sono nemici. Per il piacere i mariti abbandonano le mogli e le mogli i mariti. Il legame si tradisce, la fedeltà si scompone, come è naturale che sia d’altronde. A questo punto gli amanti sconfessati si arrendo ai piaceri proibiti dell’incostanza, alla fervente amicizia d’un amante sofista. Questo l’amore umano: un amore che richiama alla memoria le bizze di elettroni e composti chimici, integerrimi nella loro promiscuità. Come questi, si avvicinano e si respingono: amanti tentati e tentatori, corrotti e corruttori, che giocano a parlare le lingue del loro peccato, reliquie di mondi ancora da venire. È nel continuo scambiarsi che il fuoco resta acceso. Il piacere: una vestale che danza tra le bocche di mille amanti.”
Le notti passavano così, parlando di stramberie poi dimenticate al mattino. A Nino sembrava che le parole di Jacques gli sfiorassero il petto fin giù nel bassoventre, gli baciassero le dita con baci striscianti, gli sussurrassero alle orecchie i misteri dell’antica Cadmo: sapienza ed empietà, virtù e peccato. Nino spesso si perdeva e, posando la testa sul petto nudo dell’amico, chiedeva di ripetere; allora Jacques gli rispondeva che stavano giocando a “far l’amore con le parole” e che “farla doppia” non era una colpa. Insieme ridacchiavano e Jacques gli passava le mani tra i capelli, carezzandogli le orecchie e il collo. Sudati poi nel groviglio delle loro braccia, si separavano, puniti dagli dèi, andando a dormire. Ma il desiderio che Nino covava non era solo quello, non si limitava all’impersonale contemplazione d’un corpo e dei suoi stimoli. Era più simile ad una spinta, ad un impeto di cui non conosceva la meta, ma che avrebbe seguito fino alla fine, al costo di bruciare per l’eternità nelle fosse infernali.
Il suo viso, agli occhi dei lì presenti, risultava distrutto, tormentato da un malanno di ignota fattura. Rivolgendosi alla statua, sottovoce disse: “Oh Antinoo, perché in me susciti questi pensieri? Perché mi tormenti l’animo finora saldo? Non mi capisco, non voglio capirmi! Che nessun uomo veda con gli occhi dell’anima quello che io sto scoprendo per causa tua… Quante tenebre nasconde l’animo umano, quante tenebre tengo secrete nell’ombra del cuore…”
Vide Jacques più avanti, accanto alla guida del museo: i boccoli del suo riccio naturale scendevano fino alle spalle. Voleva dirglielo, confessargli l’incapacità d’un sentimento incompleto. Ci pensò qualche secondo: non ne aveva il coraggio. Sconfitto da sé, calò lo sguardo: nelle pupille aveva l’amico Jacques e nella mente il sospetto d’un altro sé, d’un sé ancora da scoprire.
Gli squillò il cellulare: un messaggio. Era Jacques, che così gli scriveva: “Sappiamo che questa notte potrebbe essere l’ultima: abbiamo ancora parecchio da dirci. Qualche impedimento?”
Nino allungò un sorriso di sollievo: benché non aspettasse quel messaggio, appena lo ebbe ricevuto, gli sembrò che lo stesse aspettando da decenni. In una miscela d’allegrezza e passiva rassegnazione, riconosceva i sintomi: o ne era innamorato, o ne era dipendente. Nella sua testa, il tacito dubbio: Essere o divenire, qual era il dilemma?
Anna guardò la sorella Matilde e, portandosi una mano tra i capelli, così le disse:
“Che significa questa storia?”
“Non ne ho la più pallida idea – rispose Matilde – ma credo sia la storia di un ragazzo qualsiasi, che tenta di scoprirsi, tra gli impedimenti del cuore, del corpo e della morale.”
Anna parve non capire e con voce flebile chiese: “Quale morale?”
La sorella rise: “Una morale che non capiamo. Una morale venuta… venuta da boh!”
Federico Lo Bue VBC