L’Inghilterra era stata sempre più distaccata rispetto alle altre nazioni europee, non solo per il fatto di essere un’isola e quindi già predisposta per un motivo geografico ad essere divisa rispetto agli altri stati continentali, ma anche per ragioni socio-culturali, ad esempio il fatto di aver mantenuto la propria moneta. Nonostante la sterlina, però, la Gran Bretagna è sempre stata importante per l’UE e farne parte le ha comunque permesso di non rimanere isolata in economia e geopolitica.
Il 23 giugno 2016 si tenne un referendum sulla permanenza del Regno unito nell’Unione Europea, in cui il 52% degli elettori britannici votò per lasciare l’Unione mentre il 48% votò per rimanere nell’UE. Il governo britannico annunciò formalmente il ritiro del paese a marzo 2017, avviando i negoziati di recesso. L’uscita fu inizialmente ritardata dal parlamento britannico e dal disaccordo su alcuni punti nei negoziati con l’Unione europea. Dopo le elezioni generali tenute nel 2019, il Parlamento ratificò l’accordo di recesso ed esattamente il 31 gennaio del 2020 alle ore 23:00 il Regno Unito uscì definitivamente dall’Unione Europea. In seguito a questo ci furono certamente delle conseguenze e adesso ne considereremo alcune.
Una delle prime conseguenze dalla Brexit furono le dimissioni dell’allora premier Cameron che, dopo l’iniziale parere favorevole, tentò fino all’ultimo di convincere gli elettori a votare per il Remain. Lo scambio e gli investimenti sono stati degli argomenti chiave nel dibattito e nelle congetture riguardanti la Brexit. Dopo la Brexit, infatti il Regno Unito non poté più godere del mercato unico e dei benefici dei servizi finanziari dell’UE, nei quali non vi sono tariffe o barriere sulle importazioni e le esportazioni tra gli stati membri. Ma vediamo adesso le conseguenze della Brexit nel 2022. Secondo questo risultato, la prognosi dell’entrata nell’Unione europea non soddisfaceva le aspettative economiche, di scambio e d’immigrazione.
L’altra grande questione riguarda la situazione della Scozia che ha votato contro la Brexit e sta chiedendo un altro referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, con l’intenzione di richiedere poi nuovamente l’adesione all’UE. Un’altra conseguenza riguarda la libera circolazione tra i residenti dell’UE ed il Regno Unito, la quale è terminata, e i cittadini di entrambe le zone devono portare con sé gli essenziali documenti di viaggio. Questo non ha avuto conseguenze solamente sull’industria dei viaggi, ma anche sul mercato del lavoro. L’UE è infatti un grande mercato per i lavoratori del Regno Unito e viceversa. Ora coloro che cercano lavoro dal Regno Unito stanno avendo molte difficoltà nel trovarlo all’interno dell’Unione Europea. Stiamo però tralasciando l’aspetto più importante dell’intera questione: quali sono le vere motivazioni che hanno spinto il Regno Unito a questa scelta? O meglio quali erano le varie argomentazioni delle due fazioni? I sostenitori del “leave” dicevano di essere trattenuti dall’Unione Europea, la quale aveva imposto loro troppe regolamentazioni sul business e volevano inoltre che la Gran Bretagna riprendesse il pieno controllo dei suoi confini e riducesse il flusso di persone che si trasferiscono per motivi di studio o lavorativi. Chi ha votato per il “remain” sosteneva una grande spinta all’appartenenza, argomentava la maggiore facilità per la vendita dei prodotti agli altri Stati membri e il fatto che il flusso di migranti, la cui maggioranza è composta da giovani alla ricerca di lavoro, è motore della crescita economica e d’aiuto per pagare i servizi pubblici. Inoltre dicevano che l’immagine della Gran Bretagna nel mondo sarebbe stata piuttosto danneggiata dal “leave” e che sarebbero stati più sicuri come parte dell’Unione piuttosto che da soli.
Ciononostante, c’è un pezzo di Regno Unito che non si è rassegnato alla Brexit. Lo testimonia John McPhie, fondatore di Rejoin and Reform, che sabato scorso ha fatto marciare cinquantamila persone a Londra. Il sogno è rientrare nell’Ue. «Era già un disastro, si sta trasformando in una catastrofe socioeconomica» dicono. È il sintomo di una nazione che ha bisogno di riforme. Per questo, Rejoin and Reform propone un’agenda in tre passi: tornare nell’unione doganale europea, rinnovare l’architettura istituzionale e avviare le trattative per rientrare nell’Ue.
Francesca D’Angelo IIBC