Tra le voci magnifiche, intessute di preziose citazioni e ragguardevoli ideologie, che gloriano le colonne che mi circondano, io, che nulla a che vedere ho con tanta erudizione, mi limito nella mia mediocre e umilissima condizione d’investigatore del vero – mestiere per ciarlatani, per truffatori da notti attiche – a recuperare una vecchia usanza poetica – cosa per sfaticati, per perdigiorno da verbo novello –, che farà di me il vespro dell’indecenza, l’impurità d’un falerno pompeiano, il satiro tra i massimi cantori. Ma meglio tapparsi la bocca, prima che qualcuno lo faccia per me.
Le caste genti chiedono
a me preziosi canti,
l’Apella salda e gli efori
convincere coi vanti.
È chiaro che ‘l Macedone
mi dona gran ricchezza,
lo dico con schiettezza
non me n’importerà!
Ma bando con i fronzoli
è meglio prender metro:
il canto non è tetro,
ma chi l’ascolterà!
Le tue compagne ridono,
oh bella pastorella,
perch’egli chiese un minimo
di quella mortadella.
Pensò non fosse crimine,
ma andasti disperata,
dicendo: “l’è pregiata,
giammai la mangerà!”
Bugiarda donna candida,
portasti in giro i piedi:
Pinocchio tu precedi
per dire falsità!
Ma, cara e bella giovane,
l’infamia vuol vendetta.
Laggiù smorfiosa vergine
tu resti sol soletta:
un bell’amico tenero
gli diede un buon salame
e con le bianche lame
morsetti dolci dà!
Or voi capite subito
che quel che vuol salume
trascura quell’acume
che a scuola studierà!
Mi canta questa lirica
un vecchio sconsolato,
che gli anni della crescita
aveva già passato.
Mi disse: “Che ricordino
quei quattro bacchettoni:
lor castrano leoni,
che voglion libertà!
Aspettino con panico
il nostro gran ruggito
ci giudica quel dito
che un dì ci temerà!”