Quest’anno si è sentito parlare poco della Gionata Internazionale Dei Diritti Umani, tenutasi il 10 dicembre come ogni anno da decenni a questa parte. Si tratta della data scelta come celebrativa per l’adozione da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, avvenuta in questo stesso giorno del 1948. I paesi membri, ancora scossi dalla guerra, convinti di apportare un cambiamento radicale, stabilirono i cosiddetti diritti umani, ovvero i diritti inalienabili di chiunque sia cittadino del mondo, che non dipendono assolutamente da sesso, nazionalità, etnia e religione.
Al termine del settantesimo anniversario di tale ricorrenza, per il quale è stato scelto lo slogan dell’Uguaglianza, è semplice notare come sebbene siano passati anni e siano stati raggiunti traguardi, alcuni aspetti della società rimangano ancora trascurati, quasi dimenticati perché non se ne parla abbastanza.
L’articolo 25 della Dichiarazione recita “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”; è forse giusto quindi escludere qualcuno da tale diritto perché detenuto o perché con disturbi psicologi? E se si trattasse di un folle detenuto? Non meriterebbe chiunque di vivere dignitosamente nonostante il suo stato sociale o salutare? La risposta appare scontata a chiunque.
Un passo indietro nella storia
Il termine follia o pazzia descrive una situazione psichiatrica e mentale cui sono associati comportamenti giudicati “anormali”. Trattasi di una malattia vecchia riconosciuta sin dall’antichità e che, nel corso del tempo, ha generato la creazione di ospedali psichiatrici, più comunemente conosciuti come manicomi, dal greco manìa (follia) e komeo (curare) che nascono come dei luoghi di riabilitazione e finiscono per diventare ghetto dei non accettati.
In Italia i primi “ospedali psichiatrici” (O.P) risalgono al XVesimo secolo e per tanto tempo ospiti di questi non furono soltanto individui affetti da disturbi psichiatrici, ma tutti coloro considerati motivo di pericolo o di imbarazzo per la società. Questi comprendono senza tetto, paralitici, alcolisti, oppositori politici, omosessuali e tanti altri che ricoverati nei centri psichiatrici smettevano di essere un problema sociale e politico.
Si cercò di controllare il degenerare della situazione solo nel 1904 con la legge n.36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”, con l’intento di controllare le condizioni proprie di queste strutture.
La legge purtroppo non fu motivo di miglioramento, ma al contrario, basandosi su una stretta alleanza tra medicina e autorità locale, consentiva il ricovero all’interno dei manicomi semplicemente con una certificazione medica e un presupposto d’urgenza. Divenne pretesto per le forze dell’ordine di reclusione verso tutti i soggetti fastidiosi, trascurando le normali procedure previste dal Codice penale.
E’ normale comprendere come il numero dei ricoverati negli anni successivi ebbe un incredibile ascesa; poco importava la salute mentale di quest’ultimi, se non erano entrati pazzi, sarebbero usciti tali, vista l’applicazione di determinate cure mediche quali l’isolamento, misure di contenzione, pesanti dosi di sedativi e l’elettroshock.
Negli anni a seguire furono tante e diverse le raccapriccianti storie dei manicomi, spesso avvolte nel silenzio. Ripercorrendo le tappe principali arriviamo all’anno 1978, quando la legge n. 180, nota anche come legge Basaglia, decretava la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici.
Merito di Franco Battaglia e dei medici che con lui credettero in quest’utopia, fu un processo lungo e traumatico che non ebbe solo conseguenze positive, in quanto atto umano, ma soprattutto problematiche legate alle condizioni economiche, di reinserimento in società e di solutidine degli ex-pazienti.
Un punto irrisolto rimasero gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, noti fin dall’800 come manicomi giudiziari, che presero questo nome con la legge n. 345 del 1975 quando entrarono a far parte del sistema penale italiano sostituendo i vecchi manicomi.
Nacquero come centri di accoglienza e di cura per i detenuti di difficile gestione negli Istituti Penitenziari o con presunte malattie mentali, ma mantennero da sempre un’organizzazione di tipo carcerario. L’abolizione degli ospedali psichiatrici aveva fatto sì che venisse loro meno un punto di riferimento normativo e organizzativo: si ritrovarono nel bivio tra diventare sempre più realtà ospedaliere per pazienti psichiatrici, soluzione anacronistica dopo la legge 180, e introdursi definitivamente nella sfera carceraria.
Motivo di estremo orrore
Facendo l’ennesimo passo avanti nella storia, indaghiamo tempi più recenti. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari videro la loro scomparsa definitiva nel 2014. Al termine di un’inchiesta della Commissione Parlamentare, negli anni tra il 2008 e il 2011, emerse un « estremo orrore che umilia l’Italia rispetto al resto d’Europa», parole dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Qualche anno dopo, con la legge n.81 del 2014, si decise la chiusura degli OPG e la responsabilità dei pazienti fu trasferita alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (R.E.M.S). Quest’ultime, di tipo regionale, sono delle strutture medico-sanitarie gestite da Asl con finalità riabilitativa, ovvero seguire il paziente in un percorso di cura e permettergli il reinserimento in società. Secondo la legge le misure detentive di sicurezza devono avere una durata definitiva, non maggiore alla pena per il reato commesso, anche se nella maggior parte dei casi la permanenza dipende dalla pericolosità sociale degli individui. La durata media del ricovero in REMS è di 236 giorni, in costante aumento negli anni, correndo il rischio di prolungarla per mancanza di alternative da parte dei servizi locali. «Oggi le REMS stanno diventando fortini nei quali si entra e dai quali non si esce».
Accanto a quest’ultime, sono presenti nelle carceri italiane reparti di osservazione, propri dell’articolazione psichiatrica del carcere, ospitanti detenuti affetti da disturbi psichiatrici che limitano le loro capacità di intendere e di volere. All’interno di questi la reclusione ha una durata massima di 30 giorni, sufficienti a provocare sempre più sofferenza psichiatrica nei detenuti per il loro oscillare tra cella e articolazione.
Si potrebbe quasi dire che gli istituti carcerai stessi stiano diventando simili a dei manicomi, dove le necessità mediche sono sottovalutate e represse con tecniche obsolete. Forse ciò è conseguente all’idea che il dolore sia connaturato alla vicenda carceraria, sebbene già nel XVIIIesimo secolo l’illuminista Cesare Beccaria affermasse «il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, […] Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali».
La nostra stessa Costituzione prevede all’articolo 27 il progressivo reinserimento sociale dell’individuo, escludendo trattamenti contrari al senso di umanità. Considerata la condizione carceraria in Italia, tale articolo è diventato un enunciato sterile per quanto apprezzabile.
Diventate evidenti le barbare regole di contenzione, l’abbandono e la solitudine peculiari di manicomi, ospedali psichiatrici e infine carceri italiani nel trascorrere del tempo, possiamo affermare che i sopracitati Diritti Umani siano stati e sono ancora sepolti da una valanga di indifferenza e noncuranza da parte tutti. Tristemente è necessario ammettere che vige nell’opinione comune l’idea che i malati mentali siano da escludere, non in luoghi di sofferenza, ma comunque dalla società civile, nonostante dovrebbe essere interesse di tutti facilitarne l’inserimento.