a Costanza N,
affinché non si affligga più del dovuto,
“neque maiora, sed meliora petamus”
Cercherò di raccontare, attraverso queste banali storie, le vicende dell’uomo, sia quelle che si vivono nell’intimità dell’anima, che quelle che fanno partecipi le persone e le loro masse. Voi, savi lettori, vogliatemi perdonare l’ingombrante straccurataggine di questi scritti.
Matilde, ragazza di ventidue anni, era affacciata alla finestra: guardava la pioggia cadere fitta e gli alberi del viale ondeggiare. Il vento fischiava incessante per le vie della città. L’acqua, che colpiva la vetrata, discendeva e sul vetro disegnava strade e viottole. Era mattina.
Dal terzo piano del suo palazzo guardava qualche avventato recarsi nelle botteghe e nelle osterie, sfidando il freddo. Nella stanza, invece, il fuoco crepitava, scoppiettando allegramente. Nella grande camerata femminile dell’orfanotrofio “Santa Genoveffa” tutte dormivano, tranne lei e sua sorella Anna, di appena dieci anni.
“Matilde, me la racconti una storia? – fece la bambina – Non ho sonno…”
“Va bene” e la fece sedere sulle sue gambe, tenendola stretta in un caldo abbraccio. Matilde iniziò a raccontare questa storia.
Elisabetta de’ Notai, di ventitré anni, era una normalissima ragazza del suo tempo quando fu colpita da un evento che la cambiò completamente. Maria, una sua amica, stentò a riconoscerla dopo quel fatto.
Discendente da una famiglia di grandi latifondisti, Elisabetta era nobile per nascita, ma mai quanto lo era per carattere e compostezza. Altezzosa, altera e, in una parola, aristocratica, aveva uno di quei caratterini che si addicono più ai personaggi della televisione che alle donne della realtà.
Come ogni ragazza che merita l’appellativo di “perfetta”, anche lei aveva un difetto. E forse era proprio questo che la rendeva la più bella della sua comitiva d’amici. Ma non perché il difetto in sé la rendesse più appetibile alla vista, quanto piuttosto perché lo nascondeva in un modo che le arrecava una bellezza d’altri tempi. Una leggera inclinazione del capo, corretta con un paio d’orecchini speciali: il peso del piombo riequilibrava lo scompenso. Elisabetta pareva veramente una nobildonna del Settecento; una principessa sfuggita alla storia.
Al tavolo muoveva le mani solo per prendere il bicchiere d’acqua; parlava solo se interrogata; rispondeva se costretta da qualche frase ambigua. Disgustata dal fastidioso rombo delle motociclette, apprezzava di più fare lunghe passeggiate o scrivere strofe sàffiche e allegri anapèsti greci. Nella penombra della biblioteca di famiglia, leggeva romanzi d’avventura. Odiava le interruzioni del pranzo e della cena, quasi fossero un inutile surplus della giornata. Bella più d’ogni altra, Maria non avrebbe mai potuto credere che sulla testa di Elisabetta penzolasse un grave destino, attaccato ad un filo pronto a sfilacciarsi.
Quale fastidio può mai dare un puntino nero? Lo stesso che dà una mosca nella stagione estiva: ci dà sì fastidio, ma la si tollera. Perché, allora, per lei una macchia nera segnò l’inizio della fine? All’età di ventidue anni, mentre tanti di noi erano affaccendati nelle loro inutilità, fu operata al seno, proprio per colpa d’una macchia nera. Un’ombra certamente più piccola di quelle che crebbero nella sua personalità. Da donna razionale qual era, le diede un nome: tumore al seno. Ed Elisabetta cedette.
“Perché io? Quale peccato ho fatto che Nostro Signore ha voluto punire in questa maniera?”
“Perché dici questo?” chiese Maria.
“Ho paura di non sentirmi più donna…”
“E perché mai?”
“Già c’era ben poco da apprezzare in me, se poi vado perdendo pezzi…” la sua ironia trapelava pure nei momenti di dolore.
Con i polpastrelli candidi sfiorava le docili curve delle anche e del ventre affamato. Le unghie, che in vita sua non aveva mai dipinte, erano violacee. Sotto il soffice pigiama bolliva per la febbre e la rabbia per qualcosa che non capiva. Con un dito carezzava la bendatura, sperando che quel che le era stato tolto, uno dei due seni, fosse ancora lì. Ma non era così: la realtà, in cui aveva sempre riposto tutte le sue sicurezze, la tradiva, si faceva beffe di lei.
Elisabetta riprese a parlare: “Che peccato… proprio il seno che più preferiva Roberto.”
“Roberto?” fece Maria.
“Un amico… nient’altro. Diceva che quella destra era la sua preferita. Quasi certamente gli piaceva quel neo accanto al capezzolo. Forse, era l’unica macchia nera che piaceva anche a me…” Ridacchiò un po’ mogia.
Rimaneva sempre perplessa di fronte a quelle ragazze che continuavano a lodare le curve del proprio corpo, quasi finisse lì il loro “essere donna”. E tra sé e sé le condannava, o meglio, le perdonava, convinta che non credessero abbastanza nelle loro capacità e potenzialità. Lei, donna razionale, credeva che il corpo fosse soltanto un involucro: nulla di diverso, nulla di migliore. Eppure, tagliato che le fu quel seno, cominciò a ritornare sui suoi passi. Cominciò a pensare che il suo corpo, in fondo, le piaceva e lo piangeva ora che era mutilo.
L’estrema razionalità di Elisabetta la portava spesso a sbagliare. Per questo motivo si odiava, e odiandosi non riusciva a superare le difficoltà. E per smettere di odiarsi continuava a creare leggi e impedimenti che solo lei vedeva e solo lei rispettava. Chiusa in una serie di circoli che continuavano a stringersi su se stessi senza mai risolversi, precipitava lentamente verso l’abisso. Maria volle tenderle una mano, risollevarla dalla fossa che da sola si stava scavando.
“Piangi Elisabetta, piangi. Non soffocare il sentimento che ti si gonfia nel cuore e ti svuota d’ogni forza!”
Elisabetta s’era fatta di pietra e non muoveva nemmeno un ciglio, mentre Maria le parlava.
“Non permettere che gli eventi ti distruggano.” continuò.
Con voce ferma rispose: “Non mi distruggerà certo questa esperienza. Ne ho passate di peggiori.”
“Sempre che tu non riesca a distruggerti da sola…”
“Che intendi dire?” replicò Elisabetta, sgranando gli occhi.
“Intendo dire quello che tu senti ma non dici. Ti ho toccato un nervo scoperto e hai provato un dolore improvviso…”
“Stai zitta, Maria! Non puoi capire quello che sto provando adesso!” fece arrabbiandosi e gettando via il lenzuolo con cui copriva la bendatura. Il petto, privato d’un pezzo, era scoperto, esposto al freddo della stanza d’ospedale.
“Cosa stai provando dunque? Dimmelo.”
Elisabetta rimase attonita, come se non sapesse cosa rispondere. In verità non sapeva veramente cosa rispondere: la domanda era facile, ma la risposta impossibile.
Maria riparlò: “Vuoi che te lo dica io? Ci proverò… d’altronde il corpo è solo un involucro. Lo dicevi tu. Ma in fondo ti manca il seno che hai perduto, no? Lo rivorresti, non è così? Non hai mai veramente creduto a quello che dicevi.”
Stizzita, Elisabetta chiese: “A cosa serve quello che stai dicendo? Non ti basta vedermi mutilata e senza forza? Perché affondi il coltello?”
“Eh no, cara amica – riprese Maria – Sarebbe troppo facile. Tu non sei né senza forza, né mutilata. Sono i tuoi schemi che vengono meno, che pian piano si sgretolano e si corrompono. Hai paura di cambiarli, hai paura che il cambiamento possa portare confusione. Ti guardi allo specchio e non riesci a credere a quello che vedi. Hai paura, nostalgia, mancanza… non saprei, ma qualcosa provi. O magari cerchi di farmi credere che provi qualcosa dal nome altisonante. Forse sei semplicemente triste: è difficile accettare che ora ti manca un seno. Ma è così. Quello che rinnegavi, in fondo era quello che approvavi: quando ti guardavi allo specchio, non eri totalmente indifferente alle curve che la natura t’aveva dato. Le amavi, le volevi, e ora che ti manca una parte, le desideri. Piangi, dunque, la perdita, ma gioisci per il cambiamento che in te si realizza. Sei forse cambiata nei pensieri? Assolutamente no: ti stai solo scoprendo, ti stai solo cercando. Stai spezzando gli schemi. Cambia, e io continuerò a volerti bene.”
Elisabetta pianse per la prima volta dall’operazione. Finalmente qualcuno le aveva detto quello che non avrebbe voluto sentirsi dire. Tutti le dicevano di farsi forza: qualcuno le disse che non aveva la forza, ma che avrebbe dovuto cercarla; Maria le disse che avrebbe dovuto rivoltarsi come un calzino per poter andare avanti: non è dentro una gabbia che vive un leone.
Molto spesso, quello che si pensa realmente è diverso da quello che si fa. Agli animi irreprensibili e immutabili basta la punta d’una spilla perché saltino in aria.
Anna guardò la sorella Matilde:
“È un po’ triste come storia, Matilde.”
“Hai ragione, ma almeno è vera. Ricorda: la legge dura, anziché irrigidire l’anima, rischia di spezzarla.”
Anna sorrise: “Forse è meglio che torno a letto. Suor Caterina potrebbe tornare a momenti.”